STEPH CURRY, IL KILLER CON LA FACCIA D’ANGELO

“La sorpresa è la prova del vero coraggio.”

Aristotele

Se si pensa a un giocatore di basket, a una stella NBA pluripremiata, due volte miglior giocatore della lega, tre volte campione, macinatore di record, non viene certo in mente un ragazzo, dalla faccia pulita, con una struttura fisica che più normale non si può. Un metro e ottantacinque. Troppo basso. Tra gli 80 e gli 85 chili. È pure leggerino, per avere a che fare con certi colleghi. 

Steph Curry ai tempi dell’università

Eppure la carriera intera di Wardell Stephen Curry II è letteralmente un inno alla sorpresa, un inno di speranza per tutti i sottovalutati del pianeta. Non sembra conoscere cosa sia la paura.

Figlio d’arte, non frequenta una delle grandi università che sono il pass per una carriera in NBA. Va a Davidson, in Nord Carolina, dove la famiglia si è stabilita al seguito di papà Dell. Stupisce tutti, chiudendo la stagione a 21,5 punti di media: davanti a lui solo Kevin Durant, suo futuro compagno di squadra, che con lui condivide le perplessità degli osservatori NBA sul peso. Troppo magri entrambi, troppo leggeri entrambi per avere a che fare con i futuri colleghi.

Eppure nel 2009 decide di provarci con la NBA. Viene scelto: alla numero 7, dai Golden State Warriors.

Nati a Philadelphia, nel 1962 vengono trasferiti a San Francisco. Hanno vinto tre titoli al momento in cui Steph arriva nella bay area. Ma si perdono nella notte dei tempi. Hanno avuto, certo, diversi campioni. Da Wilt Chamberlain a Rick Berry, al trio di fine anni ’80 inizio anni 90’, con Cris Mullin, due medaglie d’oro olimpiche, una con il Dream Team, a guidarli. Parliamoci chiaro, mai stati una delle costanti contendenti al titolo, nemmeno una franchigia vincente.

La prima svolta, i tifosi di Golden State ancora non lo sanno, è proprio l’arrivo di questo ragazzo, dalla faccia d’angelo. Esordisce il 28 ottobre 2009: in quel momento è solo il figlio di Dell, ex discreto giocatore NBA.

I PRIMI ANNI IN NBA

I suoi primi anni sono contrassegnati dai problemi fisici. Soprattutto la squadra è estremamente modesta: tra il ’94 e il 2013 è andata ai playoff una sola volta.

Gli Splash Brothers e Draymond Green

Inoltre come Batman ha al suo fianco Robin, anche Steph ha bisogno di una spalla. Nel 2011, i Warriors gli metteranno accanto un altro figlio d’arte, Klay Thompson. Insieme formeranno un duo incredibile, che nelle migliori serate è più simile a una coppia di cecchini a caccia del nemico che a una coppia di guardie.

C’è però un ostacolo da rimuovere per scatenare la rivoluzione degli Splash Brother. Un ostacolo che è un loro compagno di squadra. Almeno fino al Marzo del 2012, giorno in cui Monta Ellis viene trasferito a Milwaukee, in cambio del centro Australiano Andrew Bogut. È il terzo, necessario tassello. 

Pochi giorni dopo questo scambio, alla Oracle Arena, va in scena la cerimonia di ritiro della maglia numero 17 di Cris Mullin. E i tifosi approfittano dell’occasione per fischiare sonoramente il proprietario, reo di aver ceduto Monta Ellis, il giocatore più amato della franchigia. 

Quanti di loro, oggi, fischierebbero nuovamente il proprietario?

Il quarto arriva nel Draft 2012. È Draymond Green. È un altro giocatore estremamente sottovalutato. È troppo basso (198 cm) per il ruolo che deve ricoprire. E troppo pesante per i suoi 198 cm, 104 chili. Ma è tosto e, soprattutto, conosce il gioco del basket: oltre a essere un eccellente difensore, sa anche cosa fare con la palla tra le mani.

Questi quattro giocatori assieme ad Herrison Barnes, altro giovane terribile, riporteranno i Warriors ai playoff.

L’ESPLOSIONE DEL TALENTO

Steph migliora di anno in anno. Sta letteralmente diventando un dominatore, anche se poco alla volta. 

Il primo passo avanti, oltre all’allenamento spasmodico, si deve anche al suo fisioterapista e all’assistenza dell’azienda di abbigliamento che gli fornisce le scarpe. Sì, perché da sempre Steph ha delle caviglie estremamente fragili, che limitano il suo minutaggio in campo, quindi il suo rendimento. Grazie ai miracoli del suo fisioterapista, che lo aiuta a rinforzare le articolazioni delicate, e alle nuove scarpe, che le proteggono, gradualmente aumenta il minutaggio, potendo esprimere il suo potenziale.

Ma come può un giocatore molto più basso dei colleghi, più leggero, arrivare a dominare il campionato di basket più fisico del pianeta? La risposta: con il talento, la fantasia e l’intuizione e una sana punta di follia. Steph mette sul campo giocate che si vedono di rado. I suoi passaggi sono pura intuizione, oltre che figli di una tecnica sopraffina: con uno schiocco del polso, durante il palleggio, fa partire dei raggi laser, che tagliano in due una difesa. È un tiratore letale. Le difese devono prenderlo in consegna appena varca la metà campo, perché da lì potrebbe già segnare. Per marcarlo bisogna avere 4 occhi e altrettante braccia. Perderlo un secondo vuol dire vedere il cotone muoversi. Se lo si raddoppia poi, c’è sempre il fratello, il compagno di mille battaglie, Klay: anche lui sa cosa fare oltre la linea del tiro da tre. 

Manca un’ultimissimo tassello per scatenare definitivamente tutto il potenziale di Steph.

Steph Curry e Steve Kerr, l’allenatore che lo ha aiutato ad esplodere. Due tiratori letali, che di tiri decisivi ne hanno segnati tanti: le gare di tiro tra i due in allenamento sono spettacolo puro per gli amanti del Gioco

Nonostante due approdi consecutivi ai playoff, la dirigenza decide per il cambio di allenatore. Via Mark Jackson (terzo ogni epoca per numero di assist in carriera), arriva Steve Kerr.

È stato parte della più grande squadra di ogni epoca del basket a stelle e strisce: i Chicago Bulls degli anni ’90, quelli con Micheal Jordan in campo e Phil Jackson in panchina. Per guadagnarsi il rispetto del Re è arrivato persino a fare a pugni con MJ. Che da quel momento si è fidato del biondo playmaker nato in Libano. Dopo Chicago, passa a San Antonio, altra franchigia vincente, con un coach che ha lezioni da insegnare. Si definisce un serbo mezzo pazzo, ex agente della Cia: è Gregg Popovic. 

Kerr prende quanto di buono fatto da Mark Jackson, implementando elementi degli attacchi di Phil Jackson (l’attacco triangolo) e di Gregg Popovic (motion offense), sfruttando lo spazio che si crea fuori dall’area dei tre punti per i tiratori, grazie ai movimenti della difesa, valorizzando Drymond Green e gli altri “comprimari” e liberando al massimo le sue stelle, Curry e Thompson.

È giunto il momento: Steph letteralmente esplode. E diventa la faccia della NBA.

DAVIDE CONTRO GOLIA

Scavalcando un suo “concittadino”. Nativo di Akron come Steph. Di più, dato che è nato nel medesimo ospedale in cui Steph è venuto al mondo. È colui che dovrebbe prendere l’eredità di Michael Jordan: è LeBron James, il Re.

Il loro confronto è quello tra Davide e Golia. Se Steph è Davide, l’altro, ovviamente, è Golia. Uno è un outsider, l’altro un predestinato. Steph, abbiamo detto, è un metro e ottantacinque per ottanta chili circa. LeBron è due metri e sei centimetri, per un peso di centotredici chilogrammi. Nonostante le dimensioni LeBron è veloce, forte fisicamente e tecnicamente, in una parola: dominante. Eppure per ben due anni è Davide Steph a essere votato dagli addetti ai lavori come miglior giocatore della lega. Sono gli anni del primo titolo, nel 2015, e della rincorsa alla Storia, per centrare il record di vittorie in una singola stagione (73 partite vinte, solo 9 perse), strappandolo proprio ai Bulls di Jordan (2016). In finale però arriva una grande delusione. Sopra 3 a 1 nel conto delle gare, verranno battuti dai Cleveland Cavaliers di Re LeBron 4 a 3. Negli anni successivi, complice l’approdo di un altro fenomeno, Kevin Durant, arriveranno altri due titoli.

Come ha fatto un gruppo composto da giocatori scartati da altri perché ritenuti troppo bassi, troppo leggeri, troppo fragili, allenati da un neofita della panchina, a vincere tre titoli in cinque anni, facendo cinque finali consecutive a cui va aggiunto il record di vittorie di ogni tempo? Come ha fatto un gruppo di outsiders a entrare nella storia? Semplice, ha fatto leva sul talento che ognuno dei giocatori ha messo al servizio della squadra, mettendo in secondo piano i premi e le statistiche individuali, per raggiungere l’obbiettivo comune.

I due nativi di Akron a confronto: LeBron vs Steph

Steph è stato maestro in questo. Ha fatto esattamente ogni cosa che serviva alla sua squadra per portarla a vincere. Irrorando il tutto con il suo enorme talento e fantasia. Basta aprire Youtube e fare una breve ricerca per vedere una carrellata di giocate uniche, emozionanti, mai banali, ma mai fini a sé stesse, ma trascinanti: la Oracle arena, il palazzo dove i Warriors giocano, diventano letteralmente una bolgia dopo ogni perla del numero 30.

Steph è riuscito laddove, forse, LeBron non è riuscito: essere il migliore, emozionando le folle, sbalordendo compagni e avversari. Senza mai però eccedere, gestendo al meglio le sue emozioni, facendole trasparire il giusto.

Il premio per tutto ciò è entrare nella Storia del gioco. Il 24 gennaio 2021 ha superato un altro specialista del tiro da tre nella classifica di triple realizzate. Ha superato Reggie Miller, realizzando la tripla numero 2.561 in carriera. Una cifra mostruosa. Bel paragone quello con Reggie. Entrambi ritenuti non adatti alla lega perché troppo leggeri, troppo fragili, per battersi coi colleghi. Due giunchi con tonnellate di faccia tosta, che non si sono mai fatti problemi ad andare a segnare da sotto canestro, battendo una difesa di colossi. Per entrambi, la paura, è un vocabolo sconosciuto. Basti pensare a quanti tiri hanno segnato con il cronometro che si avvicinava, inesorabile, allo 0.

Ora a Steph ne manca solo uno da superare per issarsi in cima alla classifica di triple segnate in carriera. Manca solo Ray Allen, da suoperare: occhio e croce è questione di un annetto abbondante, ma ce la farà, statene certi.

Ha ragione Aristotele: la capacità di sorprendere sempre e comunque è prova del vero coraggio. 

Wardell Stephen Curry, di coraggio ne ha parecchio. Per questo continua a sorprendere.

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