SUPERLEGA: UNA RIFLESSIONE SUL CALCIO MODERNO

FIFA 99, videogioco EA Sport. Primi tentativi di Superlega

Il tema della settimana è stato quello morte della super competizione di calcio, la super lega.

Ho preferito attendere prima di esprimermi, per far scemare il dato squisitamente emotivo e di sorpresa, in modo da fare una riflessione più lucida possibile.

L’argomento è estremamente vasto e sfaccettato. Infatti se si è arrivati al punto in cui il mondo del calcio è diventato, per usare un’espressione tipica del mondo degli affari, too big to fail, ognuno degli attori del mondo del calcio ha la sua dose di responsabilità.

Fissiamo prima una premessa. Se è vero che il Covid ha colpito duramente il mondo del calcio, così come tutti i settori economici a dire la verità, è stato usato, ne sono convinto, come scusa per introdurre tutta una serie di cambiamenti che erano in cantiere da tempo: mi riferisco all’aumento del numero di sostituzioni effettuabili in una singola partita, ad esempio, e alla stessa Superlega, di cui ormai si parla da più di 30 anni, tanto è vero che è stata inserita più e più volte in vari videogame.

LE SOCIETÀ

Se si è sentita la necessità di una Supelega, una buona responsabilità va ricercata nella gestione a cui le società sono sottoposte. Le strutture societarie delle squadre di calcio sono ben lontane da quella che si definirebbe una gestione avveduta, anzi si potrebbe definire schizofrenica.

Senza giri di parole, manca una pianificazione tecnica e finanziaria di lungo periodo, al di là degli slogan.

Un progetto richiede tempo per passare dalla fase di ideazione alla fase finale, quella in cui dà i risultati. Ovviamente nell’arco di tempo della vita del progetto è possibile che ci siano degli inconvenienti, degli alti e bassi. È fisiologico.

Florentino Perez, presidente del Real Madrid, accanito promotore della Superlega, per evitare il fallimento. Esempio di presidente senza pianificazione, finanziaria e tecnica

Le società di calcio però spesso abortiscono progetti, anche validi, al primo rovesciamento di risultati. Facciamo un breve esempio: la società X investe una cifra considerevole su un allenatore, che risponde ai criteri pensati dalla società. Questo richiede dei giocatori per realizzare sul campo il progetto che la società ha impostato, secondo le sue convinzioni tecniche. Probabilmente farà i nomi di giocatori che stima o che già conosce e che vuole inserire in ruoli chiave. Ora, ipotizziamo che la squadra sia vittima di una serie di risultati al di sotto delle aspettative, magari a seguito di infortuni ai suoi interpreti principali. Quale sarebbe l’impatto sul progetto? Vedendo le abitudini delle società, probabilmente solleverebbe l’allenatore dal suo incarico, magari senza nemmeno terminare la prima stagione. Impatto sulla rosa? L’arrivo di un nuovo allenatore, con convinzioni tecniche differenti, probabilmente porterebbe alcuni dei fedelissimi dell’allenatore licenziato a essere messi da parte. Questo li renderebbe a tutti gli effetti degli esuberi: per piazzare questi giocatori sul mercato la società dovrebbe abbassare il prezzo, magari rilevando una grossa perdita rispetto a ciò che era stato sborsato pochi mesi prima.

Questo è il modus operandi tipico delle società di calcio, che si trovano spesso con necessità di incamerare fondi per sistemare il bilancio. Così rincorrono costantemente nuovi introiti: diritti tv, sponsor eccetera. L’errore è pero in fase di pianificazione: se la società ha un piano, le scelte dovrebbero essere coerenti con quel piano. Dallo staff di supporto, passando per l’allenatore, fino ai calciatori. Non credo che esistano squadre gestite così professionalmente.

Il nucleo del problema, dal lato squadre, è questo. Siamo in presenza di società che continuano la loro attività facendo leva sul debito, che continua ad accumularsi, con boccate d’aria occasionali date dai vari introiti. Ovviamente non è un modello sostenibile, a nessun livello.

PROCURATORI

Jorge Mendes, potente procuratore portoghese. Tra i suoi assistiti Cristiano Ronaldo. La rosa dei giocatori che rappresenta è valutata poco più di 1 miliardo di Euro

Se il calcio, usando una frase fatta, è malato, una fetta di responsabilità è da ascrivere ai procuratori, che hanno concentrato nelle loro mani via via sempre più potere. Da rappresentanti dei calciatori, che si occupavano di tutte quelle questioni contrattuali che andavano oltre la comprensione dei calciatori stessi, oggi sono intermediari che vengono remunerati con grosse commissioni in occasione dei trasferimenti dei top player. Si sono avuti diversi scandali, che hanno messo in luce come a volte i procuratori restino proprietari di una percentuale del cartellino dei loro assistiti, passando da meri intermediari a attori interessati a pieno titolo. Questo si risolve in rapporti poco chiari tra i procuratori e i club, con i primi a battere cassa ogni qualvolta che il loro assistito inanella qualche buona prestazione, minacciando il trasferimento se le richieste non sono accontentate. Bisogna ricordare che i membri della rosa di una squadra oltre che professionisti sono degli asset per la società, ossia degli investimenti per quel che riguarda i risultati sportivi, oltre che eventuali introiti finanziari da cessione. Se però un procuratore minaccia di spostare il suo assistito a ogni piè sospinto, il calciatore si deprezza, provocando un duplice danno alla società. Essa infatti dovrà sostituirlo in rosa, sperando di trovarne uno altrettanto valido, limitando la perdita finanziaria.

LA POLITICA

Chi avrebbe potuto e dovuto regolamentare il sistema e impedire che si giungesse a un punto di non ritorno sono gli stati e le due grandi federazioni, FIFA e UEFA.

Boris Johnson, premier britannico

Il Regno Unito, tramite il suo premier, Boris Johnson, si è espresso contro la creazione della competizione. Così come si sono espressi il presidente della repubblica francese Macron e il premier italiano Draghi. Quello che resta da comprendere è perché in un’epoca in cui si parla costantemente di integrazione europea, i capi di governo si oppongano a questa competizione. 

Si vocifera persino di pressioni diplomatiche inglesi sul governo degli Emirati Arabi per spingere il Manchester City a dare il via al domino di ritiri dalla competizione.

Perché?

È, come ormai di consueto, una mera questione di soldi.

Gli stati nazionali hanno interesse che i loro massimi campionati di calcio mantengano lo status acquisito per mantenere alto l’indotto che essi generano. Questo per mantenere gli introiti fiscali che questi campionati generano, che sono significativi per le casse di Regno Unito, Francia e Italia.

Il declassamento dei campionati genererebbe una necessaria ristrutturazione di tutto il comparto calcio, limitando le possibilità economiche delle squadre non coinvolte dalla Superlega. Questo colpirebbe anche il mercato del lavoro: si pensi a tutte quelle figure che lavorano “dietro le quinte”. Chi si occupa degli impianti ad esempio, oppure tutti quegli steward che fungono da assistenti per ciò che riguarda la sicurezza in occasione delle partite. Ci si troverebbe ad avere una perdita di posti di lavoro che nel momento attuale sarebbe di difficile gestione.

Jean-Marc Bosman, l’autore del ricorso che ha, nelle sue parole, tolto le catene al calcio.

Se gli stati nazionali hanno una buona dose di responsabilità, chi, a causa del lassismo e dei suoi interessi, ha creato le condizioni perché il calcio andasse, da un punto di vista economico, fuori controllo sono state le due grandi federazioni internazionali, FIFA e UEFA.

Le due federazioni sono state del tutto inconsistenti nella gestione dei cambiamenti epocali cui si è assistito. Si cominci dalla sentenza Bosman. Il giocatore belga, in forza all’RFC Liegi, voleva trasferirsi in Francia al termine del suo contratto. A metà anni ’90 ciò avveniva dietro il pagamento, anche con il contratto scaduto, di un indennizzo. Le due società non trovarono l’accordo.

La corte trovò la consuetudine restrittiva. Così stabilì che a contratto scaduto un giocatore europeo poteva trasferirsi, a titolo gratuito, in un altro club dell’Unione Europea. Ciò ebbe un impatto devastante sul calcio. Ha dato molto più potere ai calciatori, che potevano e tuttora possono minacciare di andarsene in un altro campionato a scadenza avvenuta, qualora non vengano soddisfatte le richieste loro e del relativo procuratore. Richieste che spesso sono esagerate. Il trasferimento gratuito è un danno immane per le finanze di una società. 

Inoltre ha avuto un impatto ancora più pesante sui vivai. Se nel 1990 solo poco più del 14% dei giocatori della Serie A era straniero, oggi il 12% dei giocatori della Serie A proviene dai vivai delle squadre. Questo, oltre ad aver aumentato in maniera esponenziale i costi di gestione delle società, ha avuto un pessimo impatto sulle nazionali, il cui livello è andato via via abbassandosi. La UEFA non ha nemmeno abbozzato una trattativa con l’UE per trovare un equilibrio, che tutelasse la libertà dei calciatori di muoversi all’interno dell’UE, mettendo però al sicuro i giocatori dei vivai. Sull’onda del neoliberismo imperante non si è nemmeno pensato a un tetto massimo di extracomunitari. Così come si è astenuta dal regolamentare il ruolo dei procuratori, mettendo dei freni alle loro ingerenze ed impedendo loro di incassare laute commissioni per spostare i loro assistiti.

Va anche detto che una maggiore regolamentazione, spesso conduce a una maggiore burocrazia, che porta praticamente all’immobilismo. Un tentativo però sarebbe anche stato doveroso farlo: almeno esplorare ipotetiche soluzioni.

Il fallimento più spettacolare forse è stato, per quel che riguarda la UEFA, il fair play finanziario. Incomprensibile agli occhi dei tifosi, è stato un fallace tentativo di imitare il modello americano di gestione e passo transitorio verso, probabilmente, il salary cap, cioè il limite agli stipendi. Applicato in maniera confusionaria, ha visto squadre punite ed estromesse dalle competizioni europee mentre altre, come il Paris Saint Germain ed il Manchester City, spendevano cifre faraoniche per acquistare nuovi giocatori ogni anno, senza nemmeno venir richiamati dal massimo organo europeo.

Che ha via via aumentato i posti disponibili nelle competizioni europee, nascondendosi dietro la necessità di aprire a tutti gli stati europei e aumentare i ricavi della competizione. Se è vero che i ricavi sono aumentati, con l’UEFA a guadagnare sempre di più, distribuendo circa la metà dei suoi introiti alle squadre partecipanti alle competizioni, che sono la fonte di quei ricavi, l’apertura è stata motivata da un dato squisitamente politico. Strizzare l’occhio alle federazioni di paesi meno importanti porta parecchi voti in sede di elezione del presidente. 

Aleksander Čeferin, presidente attuale della UEFA, dopo essersi scagliato contro la Superlega ha visto bene di aumentare il suo stipendio. Dopo aver parlato di meritocrazia, la stessa su cui la sua federazione è passata sopra quando ha ignorato le violazioni al fair play finanziario e ha bloccato il tentativo di una competizione che potesse oscurare la Champions League facendo pressioni sui club inglesi, alcuni sospettano anche promettendo denaro. Il tutto perché la UEFA non vuole assolutamente rinunciare al giro d’affari miliardario della Champions.

Aleksander Čeferin, presidente UEFA e vicepresidente FIFA, ha guidato la controrivoluzione: si è opposto duramente alla Superlega, per aumentarsi poi lo stipendio

Questo bisogno di aumentare i ricavi ha anche aumentato in maniera vertiginosa il numero annuo di partite. Cosa che ha aumentato i costi di gestione di una squadra. Più partite (per una squadra che arrivi in finale di Champions League, si parla di più di 60 partite annue) creano la necessità di una rosa più ampia, cosa che inevitabilmente conduce a un monte stipendi più alto.

Čeferin è stato eletto in un consiglio straordinario per trovare un sostituto a Platini, travolto da scandali finanziari, relativi a compensi illeciti ricevuti in passato. Čeferin è anche vicepresidente FIFA, su cui si sono concentrati gli occhi della magistratura svizzera e dei media USA per l’assegnazione del mondiale 2022 al Qatar, dietro cui si sarebbero mosse ingenti somme di denaro. Un mondiale che risponde agli stessi criteri della Superlega, ovvero denaro ed elitarismo. 

Appare quantomeno ridicolo che queste due federazioni abbiano avuto il coraggio di parlare di meritocrazia.

QUALE FUTURO PER IL CALCIO?

Bastano queste nozioni per farsi un’idea dello stato di salute dello sport più seguito del mondo.

Quale può essere il futuro? Come detto in fase introduttiva il giocattolo ormai è too big to fail. È improbabile che il fallimento della Superlega sia definitivo. È stato probabilmente un test, per vedere le reazioni dei media, della politica e dei tifosi, le vere vittime della situazione. Sì, perché il tifoso verace, genuino, è ciò che questo processo tenderà ad escludere a vantaggio di un mero consumatore, che acquisti partite e merchandising.

Quando una Superlega, più o meno chiusa, con più o meno delle 20 squadre previste da questo primo tentativo, prenderà vita, perché credo che così sarà, si creerà una frattura netta. Probabilmente si assisterà alla creazione di una superfederazione privata europea, probabilmente su più livelli, con giocatori professionisti e un giro d’affari miliardario.

Al di sotto di questa élite probabilmente il calcio nazionale ripartirà dal semiprofessionismo, per quel che riguarda le serie più alte, ad esempio l’attuale serie A, con le serie al di sotto riportate al dilettantismo, probabilmente con squadre nate da iniziative popolari.

Sarebbe probabilmente l’unica via di salvare lo spirito di questo sport, ripartendo dalle origini e dando la possibilità alla gente di riavvicinarvisi.

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