Di storie attorno al Maracanazo ne esiste un numero incalcolabile. E tutte sono state bene o male narrate. Sono soprattutto quelle degli sconfitti ad aver colpito l’immaginario collettivo: essendo una vera e propria tragedia nazionale, condita da suicidi quasi di massa, è abbastanza normale.

C’è però uno dei ventidue in campo che è testa e spalle sopra gli altri. È il leader, il numero 5 della nazionale uruguaiana, di cui è il capitano: Obdulio Jacinto Muiños Varela.

Già il ruolo in campo ne fa una chiave di volta per la celeste: è il centromediano, oggi diremmo centrocampista difensivo, scudo spaziale davanti alla difesa. Ma è anche fondamentale dato il sistema di gioco uruguagio. Questo sistema è una sorta di imbuto, tende a mandare l’attacco avversario al centro, dove il centromediano, ha il compito di recuperare la palla e farla arrivare ai due attaccanti interni, oggi diremmo trequartisti. 

Obulio Varela, con la divisa del Penarol

Ma cosa fa di questo giocatore un protagonista assoluto di questa partita. Non ha segnato nessuno dei due gol. E gioca nella squadra di uno dei top 3 del mondo nel 1950, Juan Alberto Schiaffino.

È una dote che non si insegna a scuola a farne un protagonista del secondo trionfo mondiale uruguagio: la leadership.

Sì perché è Obdulio il padrone della squadra. È un jefe, un caudillo: un comandante insomma. Un comandante che unisce alla leadership una grande intelligenza strategica e una forte integrità.

Negli anni ’40, ad esempio, sul Rio della Plata, i calciatori argentini e uruguaiani, scioperano in blocco per ottenere lo status di professionisti. Uno dei fulcri dello sciopero è proprio Varela. I dirigenti della squadra per cui gioca, il Penarol, cercano di corromperlo. Sì, perché se Obdulio cedesse, lo sciopero riceverebbe un colpo duro, probabilmente avrebbe termine. Gli donano una cucina a cherosene, un vero lusso per l’epoca. Il caudillo non la fa nemmeno scendere dal camion. Perché, da vero leader, mette in secondo piano sé stesso: lui sciopera per tutti i calciatori rioplatensi, non per sé stesso.

Ma la situazione prima dello scontro con il Brasile è molto più problematica. Gli uruguagi sono in ritiro, ovviamente, in Brasile. In albergo, il personale, ogni volta che incontra un membro della delegazione, gli fanno segno 4: è il numero minimo di gol che gli faranno. Un dirigente urugagio allora, un po’ sconsolato, sostiene che compiono il loro dovere se prendono meno di 3 gol. Obdulio lo sente: lo attacca al muro e afferma: “Cumplimos (cioè facciamo il nostro dovere) si somos campeones”.

Scambio dei gagliardetti

C’è da dire che comunque gli uruguagi arrivano al Maracana senza nulla da perdere. Non hanno la pressione di un paese che vuole mettersi sulle mappe del mondo. Tanto è vero che i giocatori della celeste portano i materassi in spogliatoio e riescono anche a riposare per qualche minuto prima della partita. A differenza dei brasiliani, che per tutto il pre partita hanno a che fare con una sfilata interminabile di politici: non riescono nemmeno a pranzare con calma. E, ciliegina sulla torta, hanno anche un incidente con il pullman mentre vanno allo stadio.

Sul campo bisogna pur entrarci. E il Maracanà è una bolgia. I brasiliani, strategicamente, fanno entrare le squadre avversarie dopo la loro nazionale. Prima di entrare gli uruguagi vengono fermati nel tunnel da Obdulio. Li guarda tutti. “Los de afuera, son de palo”, dice: quelli là fuori non esistono (son de palo, letteralmente sarebbe come dire sono bastoncini). Poi, seguito da Maspoli e gli altri, entra. Non prima di averli incitati: “Ya ganamos”. E vinciamo.

Arriva il momento delle formalità. A centrocampo, i capitani si stringono la mano, si scambiano i gagliardetti, effettuano il sorteggio per vedere a chi spetterà il calcio d’inizio. Al momento di lanciare la monetina pare che Obdulio la raccolga, la consegni all’arbitro, dicendo che non serve. Comincino pure i brasiliani. Tanto vincerà l’Uruguay. Spavalderia? Forse. Di certo fa capire ai brasiliani che la celeste non li teme.

Il primo tempo è molto equilibrato. All’inizio del secondo però, Friaça, attaccante brasiliano, sblocca la partita. Il Maracanà ribolle. Obulio capisce che deve prendere tempo, deve raffreddare i brasiliani, o verranno sommersi. Prende la palla sotto braccio e si dirige verso il guardalinee. È certo che per un secondo almeno abbia segnalato il fuorigioco: “Orsai”, versione rioplatense della parola off-side. Sa perfettamente che non cambierà la decisione, ma ha trovato un modo per prendere tempo. D’altronde è il capitano e ha diritto di parlare con la terna. Soprattutto se, come sta facendo, non eccede nei modi. Pare chieda addirittura un interprete. Lo stratagemma ha successo. Dopo il gol, gli uruguagi, si sbloccano. Giocano sempre meglio. E ribaltano la partita. 

Il Brasile allora si lancia in avanti. Disperatamente. L’Urugay resiste. Ma senza i cambi, introdotti molti anni dopo, e a causa del caldo, le energie cominciano a scarseggiare. Obdulio trova allora uno stratagemma per far rifiatare per un secondo i suoi. Subisce un colpo. Resta a terra. Entra allora il massaggiatore, mentre i suoi compagni ne approfittano per dissetarsi e rifiatare. Ma l’idea di affrontare l’ultima decina di minuti in inferiorità numerica, senza il leader della squadra fa crescere il timore nei suoi. Guarda il massaggiatore e gli dice che non è nulla, deve dire ai giapponesi, cioè ai suoi, di resistere. Questo stratagemma potrebbe sembrare disonesto. Ma non lo è. È strategia. Dove sta la differenza. Innanzitutto non crea un danno diretto agli avversari: non ha simulato in area, per guadagnare un rigore. Ha semplicemente sfruttato un fallo guadagnato, in maniera onesta, per far rifiatare i suoi.

Il Brasile non pareggerà. Secondo mondiale per gli uruguagi. 

L’unica immagine del Caudillo con la coppa.

La finale porta il segno del caudillo. Perché, come un generale, ha gestito ogni aspetto della partita. Ha motivato i suoi, ricordando loro che solo la vittoria era il completamento del loro dovere, del loro percorso. Li ha motivati e protetti prima dell’ingresso in campo. Infine, nel secondo tempo, ha messo in campo tutta la sua intelligenza strategica, per riuscire a portare a casa la coppa.

Compiuto il dovere, non ha avuto nemmeno la soddisfazione di sollevare la coppa. Gli è stata si consegnata da Jules Rimet, ma gli è stata strappata dai vari dirigenti e politici al seguito della squadra. Il premio? La cifra sufficiente a comprare un’auto, che gli viene rubata dopo nemmeno una settimana.

A Obdulio resta solo una cosa da fare. Reader, il cinquantatreenne arbitro (il più vecchio ad arbitrare una finale mondiale), chiede agli uruguagi se può avere il pallone della finale. Obdulio ha previsto anche questo: gli presenta tre palloni. Uno è estremamente consumato il caudillo gli fa intuire che, dato che è più consunto, è ovviamente quello della finale. Ma è così? No. Infatti il pallone della finale è a Montevideo, nel museo del calcio. Con le scarpe del Caudillo.

Non so voi, ma io uno come Obdulio lo vorrei sempre in campo nella mia squadra. Perché le doti che ha mostrato non si imparano su un campo di calcio o sui banchi di scuola. Ma ci vengono donate alla nascita. E Obdulio Jacinto Varela le sapeva usare, eccome.

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