Written by Essere arbitro non è affatto facile.
Naturalmente un buon direttore di gara necessita al contempo di qualità squisitamente tecniche, come una completa conoscenza del regolamento, e di una condizione atletica sufficiente a reggere i 90 minuti di partita, rimanendo sempre nella posizione migliore per valutare gli episodi che possono accadere; ma non è tutto. Anche dal punto di vista psicologico, esistono alcune caratteristiche di cui un buon fischietto deve essere in possesso. Deve essere equilibrato, sereno, non farsi influenzare da fattori esterni (che possono spaziare dal clima a bordo campo alle polemiche settimanali sulla stampa specializzata). Inoltre, un arbitro deve avere la capacità di voltare immediatamente pagina: se compie un errore, non deve mettersi alla ricerca di un modo per riequilibrarlo, rischiando così di commetterne altri. Se un calciatore protesta, l’arbitro deve limitarsi a punirlo (quando necessario), senza portare rancore per il resto della partita né tantomeno per le successive. Soprattutto, deve essere capace di farsi scivolare addosso eventuali critiche: essendo un essere umano, commetterà sicuramente degli errori. Se questi sono stati commessi in buona fede, anche influenzando il corso di una partita, non è corretto eccedere nelle critiche.
Infine, cosa forse più importante di tutte le altre, deve sapersi mettere da parte. Un arbitro deve sapere fin da subito che non sarà lui il protagonista della gara. Per cui deve essere in grado di mettere da parte il suo ego: se una sua decisione cambierà il corso di una partita, deve solo essere conseguenza di quanto accade in campo e deve attenersi scrupolosamente al regolamento.
Se non si possiedono queste doti e non si riesce a svilupparle, sarebbe meglio evitare di intraprendere la carriera arbitrale.
Nelle ultime settimane, l’inchiesta del programma televisivo “Le Iene” sul mondo arbitrale italiano, originata dalle dichiarazioni di un arbitro, ha fatto molto scalpore.
Onde evitare la radiazione dall’AIA, l’associazione arbitri, il fischietto intervistato ha voluto restare anonimo, conservando così la possibilità di continuare ad arbitrare. Ma quello che emerge dalle sue rivelazioni è un ritratto tutt’altro che roseo, che mette in luce l’inadeguatezza della classe arbitrale italiana rispetto alle esigenze di un campionato professionistico che, anche se in fase calante rispetto al passato, rimane comunque tra i maggiori in Europa e nel mondo. La classe arbitrale risulta inadeguata innanzitutto nel suo ruolo principale, cioè quello di esprimere direttori di gara in grado di arbitrare nel miglior modo possibile le partite del massimo campionato italiano.
Gli errori che si sono visti nella stagione in corso sono spesso inspiegabili, oltre che ingiustificabili. Ci sono alcuni episodi che ci lasciano perplessi, ed è francamente inaccettabile che non siano stati sanzionati dal direttore di gara di turno, indipendentemente dalla motivazione. In questa stagione, con i loro errori, gli arbitri hanno influenzato non poco l’andamento del campionato di Serie A. Attenzione: non sto affatto sostenendo che ci sia una squadra favorita a danno delle altre. Se qualcuno vuol leggere che l’Inter, visto che è la prima della classe in questa stagione, sta “rubando” lo Scudetto, questo articolo non fa per lui. Se gli errori sono il sintomo più evidente dei problemi della classe arbitrale, inadeguata sotto l’aspetto caratteriale e tecnico, questi a loro volta sono figli di problemi più profondi, interni all’AIA.
Andiamo però con ordine, partendo da ciò che più interessa ai tifosi, ossia gli errori che settimanalmente gli arbitri commettono nella direzione delle partite.
Si tratta di errori spesso ingiustificabili, perché non di rado la decisione finale è in contraddizione con il regolamento. Ne è un esempio il mancato fischio sull’episodio della gomitata con cui Bastoni (difensore dell’Inter e della Nazionale) ha colpito Duda durante Inter-Hellas Verona del 6 gennaio scorso, in occasione della vittoria casalinga nerazzurra per 2-1.
La gomitata, indipendentemente dalla forza con cui viene rifilata, è un comportamento scorretto che viola la regola n.12: andrebbe comunque punita con un cartellino giallo, sempre non sia considerata condotta violenta, cosa che comporterebbe un rosso diretto. L’audio del dialogo tra arbitro (Fabbri) e VAR (Nasca) aggiunge errore all’errore. L’arbitro Fabbri, sollecitato da Nasca, sostiene che si tratti di una simulazione da parte del giocatore in maglia gialloblù. Interpretazione imperdonabile, visto che sia l’arbitro che il suo assistente sono abbastanza ben posizionati per valutare che non si tratta di simulazione.
Successivamente il designatore degli arbitri, Rocchi, ha ammesso che si sia trattato di un errore arbitrale, finendo però per mettere la classica pezza peggiore del buco: la sua difesa dell’arbitro ha del vergognoso. Cercando di sostenere che, in quanto uomini, gli arbitri possono sbagliare, è arrivato dire che il Verona, che ha protestato con veemenza per l’episodio, aveva poco da recriminare, perché dopo aver subito il 2-1 in occasione dell’episodio contestato, aveva ricevuto e sprecato un calcio di rigore a favore, e non erano stati certo gli arbitri ad averlo calciato male. Così facendo ha in pratica fatto passare l’idea che il penalty, assegnato correttamente, fosse in realtà il tentativo da parte di Fabbri di compensare un errore precedente, un comportamento inaccettabile da parte di un arbitro di Serie A. Questa dichiarazione non fa altro che confermare una delle dichiarazioni dell’arbitro misterioso intervistato da “Le Iene”, secondo cui la classe arbitrale sarebbe eccessivamente sensibile alle critiche esterne, anche considerando che l’atteggiamento di Rocchi al momento del rilasciare tale dichiarazione è stato piuttosto aggressivo.
Altro tema è il reale potere della VAR. Nell’esempio sopra citato, come abbiamo visto, l’arbitro ignora l’invito del VAR di fischiare il fallo. Il fatto che il VAR, che ha la possibilità di vedere con più chiarezza certi episodi evitando errori grossolani, non possa imporre all’arbitro di correggere i suddetti errori, disinnesca gran parte delle potenzialità dello strumento. Visto che fino a poco tempo fa le comunicazioni tra arbitro e VAR venivano secretate, l’impressione che al tifoso sorgeva era che gli arbitri mal tollerassero il suddetto strumento, a riprova di una certa loro permalosità: era come se i direttori di gara dicessero “qui il direttore di gara sono io, e decido io”.
Uno degli aspetti, poi, che andrebbe corretto è l’influenza che l’utilizzo del VAR ha sulla valutazione della prestazione dell’arbitro e degli assistenti. Se una valutazione presa in campo viene modificata dal VAR, questo influisce negativamente sulla valutazione della prestazione di arbitro ed assistenti. Bisognerebbe valutare in un secondo momento gli episodi, con tutta calma, cercando di capire dove l’arbitro ha sbagliato da un punto di vista tecnico, e per questo merita una valutazione negativa, e dove invece il VAR è stato un valore aggiunto, aiutando l’arbitro incolpevole di non aver potuto vedere un episodio con la necessaria chiarezza.
Questo tema ci permette di passare al secondo argomento, quello meno visibile ma, a quanto pare, più incisivo: le divisioni interne in seno all’Associazione Arbitri. Divisioni che non sono figlie di una sana competizione tra direttori di gara, alla ricerca della qualifica di internazionale e per evitare di occupare agli ultimi posti nelle classifiche di rendimento, scongiurando così il rischio di una dismissione dell’arbitro. Una competizione di questo tipo sarebbe da considerarsi sana, visto che (almeno in teoria) potrebbe stimolare gli arbitri a fare meglio, ad essere più attenti e concentrati e ad evitare errori.
Le divisioni interne all’AIA sembrano piuttosto una banale storia italiana. Si tratterebbe infatti di divisioni “politiche”: due schieramenti sarebbero in contrasto fra loro per arrivare alla presidenza dell’Associazione.
La figura del Presidente concentra in sé un grande potere, visto che nomina tutti i quadri e i designatori di A e B, di serie C e di serie D. In questo scenario, lo schieramento facente riferimento all’attuale Presidente starebbe facendo di tutto per danneggiare, per quanto possibile, le sezioni che gli si oppongono, cercando di eroderne il potere in modo da riconfermarsi e vincere le imminenti elezioni, previste per il prossimo mese di maggio. Lo strumento più efficace per perseguire tale obiettivo sarebbero appunto le valutazioni che gli arbitri ricevono settimanalmente, tramite il quale proteggere i fischietti delle sezioni “alleate” e danneggiare quelli appartenenti alle sezioni “nemiche”.
Se tutto ciò corrispondesse al vero, l’AIA andrebbe commissariata seduta stante, e l’intera organizzazione dovrebbe essere resa oggetto di una immediata e profonda ristrutturazione.
’Associazione si fregia di essersi data un’impostazione estremamente democratica, ma ciò è falso. A votare il Presidente non sono tutti gli Associati, ma solo i presidenti delle circa 200 sezioni e alcuni dirigenti considerati “emeriti”. Ecco da dove deriva il bisogno di gratificare i presidenti delle varie sezioni: servono voti. Quello degli organi elettivi, nel calcio e nello sport in genere, è un problema che si ripropone spesso, e ritornerà in queste pagine. Nel caso dell’AIA sarebbe facilmente bypassabile: sfruttando la piattaforma informatica a disposizione degli arbitri, infatti, sarebbe possibile far votare ogni singolo membro dell’Associazione come singolo, limitando lo sforzo necessario.
Ma l’Associazione, a mio avviso, dovrebbe anche fare qualche modifica ai suoi statuti.
Innanzitutto, nonostante la tanto sbandierata democrazia, ai membri dell’AIA è fatto divieto di rilasciare dichiarazioni agli organi di stampa. Se ciò è comprensibile al termine di una partita, visto che non è il caso che dopo un match magari complesso da arbitrare, il direttore di gara vada a rilasciare una conferenza stampa, ciò diventa una limitazione delle libertà individuali se ci riferisce a dichiarazioni di diverso carattere. Se qualcosa di contrario ai regolamenti avviene all’interno dell’Associazione, qualcosa che può danneggiare il campionato, è diritto di ogni membro denunciare, anche pubblicamente, quanto avviene. È giusto che il pubblico sappia, visto che senza l’interesse della gente, senza tifosi, crollerebbero sia il valore dei diritti televisivi (cioè oggigiorno la prima fonte di introito per i disastrati bilanci delle Società di calcio), sia l’attenzione degli sponsor. E l’interesse di uno spettatore a lungo andare può anche venire meno, se lo spettacolo a cui paga per assistere lo fa sentire preso in giro.
Per un campionato che ha perso molto appeal rispetto ai decenni passati come quello italiano, la cui competitività internazionale è crollata dopo Calciopoli, le polemiche continue che seguono ogni errore arbitrale sono una pessima pubblicità, che danneggiano ulteriormente un movimento già in crisi.
Per questo sarebbe necessaria una profonda riforma dell’Associazione Arbitri. Seguendo il principio “chi controlla i controllori”, bisognerebbe innanzitutto togliere all’AIA il compito della valutazione: incarico che dovrebbe passare alla Federazione Italiana Gioco Calcio, eliminando così un mezzo di lotte politiche interne all’AIA. Altra modifica necessaria dovrebbe essere quella della designazione dei direttori di gara. Questo è un tema che spesso è finito al centro di polemiche, visto che chi designa gli arbitri ha un grande potere, cosa che è stata notata anche durante lo scandalo Calciopoli. Se si volessero abbattere dubbi e malelingue, basterebbe fare in modo che il sorteggio sia il più casuale possibile. Come? Basterebbe un sorteggio simile a quello di una lotteria, in cui l’incaricato alla designazione degli arbitri fosse un pubblico ufficiale estratto a sorte dai registri dello Stato.
Questo non è che un primo spaccato su quello che è un grande malato: il calcio, soprattutto quello italiano. Lo sport più amato al mondo è in grossa, grossissima crisi da ormai parecchio tempo, tra federazioni, FIFA e UEFA, sempre più allo sbando, vittime di dirigenti che a ogni piè sospinto finiscono sotto indagine per continui sospetti di corruzione. I suoi protagonisti in campo, ovvero calciatori e allenatori, cambiano maglia praticamente annualmente, lasciando squadre che, in ossequio al mondo moderno, non incarnano più (nella quasi totalità dei casi) alcuna identità, sempre più simili alle franchigie del sistema americano, pronte a cambiare campionato (si veda il Fenerbace, che sta valutando l’abbandono del campionato turco), barcamenandosi tra la necessità di tenere a galla i conti e lotte continue anche con le istituzioni politiche (l’esempio di Milan e Inter, in continua lotta col comune di Milano per lo stadio). Ma su questi temi, tornerò in futuro.