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Riprendiamo la storia da dove l’avevamo interrotta settimana scorsa: il momento in cui Alex Schwazer cade nella tentazione del doping.
Non farò la cronaca momento per momento, visto che non è questo l’oggetto dell’articolo: sono due gli aspetti che intendo sottolineare.
Bisogna in primo luogo riconoscere che, nel doparsi, paradossalmente Alex dimostra una grande intelligenza.
Come ammetterà lui stesso e come poi confermeranno pure le indagini, il marciatore altoatesino fa praticamente tutto da solo: nella serie che Netflix ha prodotto sul suo caso, Alex racconta di come si sia procurato le sostanze vietate da assumere in occasione di alcuni viaggi in Turchia e di come, per stabilire le dosi e i tempi, si sia basato su ricerche in Internet e su poche indicazioni da parte dei farmacisti che di volta in volta incontrava.
Altro aspetto interessante che traspare dalla testimonianza di Alex è lo stato emotivo dell’atleta, ben consapevole di stare violando le regole, a tratti paranoico, perché conscio che ciò che sta facendo, se scoperto, lo porterà alla squalifica. Ma soprattutto, nella mente di Schwazer si fa strada un dubbio: che senso ha continuare a fare l’atleta professionista, se per farlo è costretto a barare ogni volta?
Inizia un periodo di grande solitudine ed isolamento per Alex, e per di più la cosa inizia a sollevare qualche perplessità negli addetti ai lavori: uno degli uomini di punta della Nazionale Italiana di atletica, nonché il leader indiscusso per quanto riguarda la marcia, si allena in totale isolamento, tenendosi lontano dai centri tecnici e dalla Federazione, e questo risulta quantomai strano.
Il doping, inizialmente, da nuovo slancio ad Alex. Ma è uno slancio che ha vita breve: a pochi giorni dalla 50 chilometri di marcia delle Olimpiadi di Londra 2012 viene trovato positivo ed escluso dalla gara, di cui è il campione in carica e massimo favorito.
Il tribunale antidoping squalifica Alex fino al 29 aprile 2016 e con la giustizia penale, essendo il doping in Italia un reato a tutti gli effetti, patteggia 8 mesi di reclusione e 6.000 € di multa. A seguito di questa vicenda legale, si interrompe anche la sua relazione sentimentale con la pattinatrice Carolina Kostner, e naturalmente è infine costretto ad abbandonare il gruppo sportivo dei Carabinieri, di cui fa parte.
Sembrerebbe la fine della carriera di Alex Schwazer.
Che però, al contrario, rinasce a livello umano. Nel giro di pochi mesi il clamore mediatico generato dalla sua positività al doping va scemando, e da tempo nessun programma televisivo lo cerca più per ospitarlo. Stesso discorso per quanto riguarda gli spot pubblicitari: chi mai vorrebbe essere reclamizzato da un baro, un disonesto, uno che è stato un vincente solo perché imbrogliava?
Paradossalmente, Schwazer approfitta di questa situazione. Torna a sentirsi un ragazzo qualunque, uno sportivo qualsiasi e si ricarica di energie psicologiche. Si iscrive all’Università ad Innsbruck, in Austria, dove trascorre l’estate come uno studente qualunque, lavorando come cameriere per arrotondare le sue entrate.
Durante una lezione che segue, di medicina dello sport, si parla di doping. Il professore, ignaro della presenza di Alex tra gli studenti, parla di casi famosi di doping nello sport. Quello del ciclista americano Lance Armstrong in primis, ma anche quello di un certo Alex Schwazer. Che, senza alcuna vergogna si alza, si presenta ai compagni e parla loro del suo caso.
Questo periodo della sua vita è terapeutico. Lo fa rinascere prima come uomo e poi come atleta, e fa crescere in lui un desiderio: quello di dimostrare di essere il più forte anche senza doping. Vuole dimostrare che le sue prestazioni da medaglia erano pulite, e vuole vincere ancora, da corridore pulito.
Ed ecco un altro colpo di scena in questa vicenda: Alex si rivolge proprio a colui che lo aveva denunciato.
Alessandro Donato, detto Sandro, Maestro dello Sport, era allenatore di alcuni degli atleti della Nazionale Italiana di atletica leggera a fine anni ’80.
La sua separazione con la FIDAL, Federazione italiana di atletica leggera, è burrascosa. L’ennesima, classica squallida storia all’italiana.
Il primo attrito è dovuto a un grave scandalo in cui l’atletica italiana è coinvolta. Il 5 settembre 1987, a Roma, si tiene la gara mondiale di salto in lungo. Atleta di punta italiano è Giovanni Evangelisti, già bronzo tre anni prima a Los Angeles e argento quello stesso anno agli europei indoor. Prima del suo sesto salto, però, è quarto, quindi fuori dal podio. Per issarsi in terza posizione avrebbe bisogno di un salto da almeno 8.34 metri, che gli avrebbe consentito di superare la misura fatta segnare dall’americano Myricks. Significherebbe un salto che varrebbe la seconda prestazione personale per l’italiano, capace in carriera di 8.43 metri (misura rimasta a lungo record italiano). Il sesto salto di Evangelisti sembra non avvicinare quella misura. L’italiano è deluso, anche se un quarto posto non è, tutto sommato, da buttare. Nelle immagini televisive si vede un giudice, della FIDAL (che, in quanto paese ospitante, ha fornito la “manodopera” per la gestione delle gare) che gli dice di non dare tutto per scontato, di guardare la misura. Che è un sorprendente 8.38 metri, a soli 5 centimetri dal suo record italiano. L’italiano è quindi a podio. Ma gli eventi sollevano più di un sospetto in diversi attenti osservatori. Donati su tutti, che vuole vederci chiaro. Grazie alle testimonianze di alcuni giovani giudici presenti riesce a risalire al video, conservato negli archivi RAI, che prova l’imbroglio. Gianni Minà, grande giornalista RAI, trasmetterà quel video in prima serata, evitando ogni possibile insabbiamento.
La Federazione non gradisce l’intromissione di Donati, che costa ad un ignaro Evangelisti il bronzo mondiale e una delle tante figuracce alle istituzioni sportive del Bel Paese.
La frattura definitiva è causata dal doping. Donati viene a scoprire che la FIDAL e altre Federazioni legate al CONI stanno collaborando con il team composto dai medici Conoconi e Ferrari, considerati dei guru del doping. La cosa non gli piace affatto. La separazione, visto che Donati dopo “l’affaire Evangelisti” era già stato sostanzialmente messo da parte ed esautorato, è naturale.
Sandro diventa quindi un alfiere della lotta al doping, iniziando a collaborare con la WADA. È lui che avvisa l’ente mondiale antidoping dello strano comportamento di Alex. Ed è sempre lui a collaborare con gli inquirenti nel caso penale contro Alex Schwarzer.
L’idea di allenare l’altoatesino non lo convince fino in fondo. Ha delle idee riguardo al caso di Alex, in particolare ritiene praticamente inverosimile quanto raccontato dal marciatore: sospetta infatti che non sia vera la versione secondo cui Schwazer si sarebbe dopato da solo. Ritiene che stia coprendo qualcuno. Ma chi?
Ci sono però degli elementi che non quadrano con l’idea che Donati si è fatto e che invece confermano la storia di Alex. Ad esempio, ritiene improbabile che le sue medaglie siano pulite. Ma nuove analisi della WADA dimostrano che Alex ha ottenuto ogni medaglia senza l’uso di doping. Immacolato, ogni singola volta. E ciò lo convince quantomeno ad incontrare di persona il marciatore altoatesino.
L’incontro è carico di tensione ed emozione. Alex, dando una lezione che è fondamentale imparare, per tutti, si assume fino in fondo ogni responsabilità dell’accaduto. In quello che Schwazer definisce come “l’interrogatorio di un pubblico ministero”, Donati capisce non solo che Alex ha raccontato fino in fondo la verità, ma si è assunto forse più responsabilità di quelle che realmente aveva.
Emerge infatti che Alex aveva già confessato, molti mesi prima della sua positività, l’uso di EPO a due medici della Federazione italiana di atletica. Non deve essere stata una sorpresa per Donati, che avrà pensato che, in fondo, l’Italia non cambia mai.
Qui la storia si biforca. Da un lato infatti abbiamo il rapporto allievo/maestro che si instaura tra Donati e Schwazer.
Dall’altra le conseguenze che porteranno le dichiarazioni rilasciate volontariamente dal marciatore altoatesino ai magistrati, con una quantomai immeritata e definitiva rovina dal punto di vista sportivo.
Per concludere questo secondo articolo, parte di una trilogia, voglio concentrarmi sul rapporto tra Alex e Donati.
Il rapporto tra i due è praticamente il perfetto rapporto maestro – allievo. Come gli eroi dell’antica Grecia avevano nel centauro Chirone un maestro, così Alex trova in Donati prima un maestro, con un rapporto di profondo rispetto, segnato anche da un doveroso distacco che via via si scioglie. Donati, in pochi mesi, trasforma Alex. L’Alex Schwazer che aveva dominato a Pechino nel 2008 è nulla in confronto a quello che sorge dagli allenamenti cui Donati e lo staff che l’allenatore assembla per questa folle scommessa lo sottopongono. Donati e il suo staff, va ricordato, lavorano gratuitamente, visto che Alex è un paria, un esiliato che, dal canto suo, si mette totalmente in gioco, accettando controlli antidoping a sorpresa da parte del suo allenatore.
Ogni aspetto della preparazione del marciatore viene rivoluzionato. Questo dimostra anche la responsabilità che l’atleta altoatesino assume su di sé: non scarica su nessuno le colpe dei suoi errori, ne accetta le conseguenze, ed esce trasformato dall’esperienza: più forte, definitivamente un campione. Imparare dai propri errori, dopo averli accettati, in quanto parte di una crescita, fa la differenza tra un atleta “normale” e un campione.
Purtroppo, come del resto spesso accade anche nei Miti, questa storia non ha avuto il finale lieto che Alex avrebbe meritato, cioè il ritorno ad una medaglia olimpica pulita come lo era stata la precedente. Come e perché Alex verrà nuovamente coinvolto in affari di doping sarà l’argomento della settimana prossima.