Dražen Petrović nasce a Sebenico, in Dalmazia, secondo genito di papà Jovan, detto Jole, e mamma Biserka: cinque anni e mezzo prima di lui infatti è nato Aco, al secolo Aleksandar. Non sembra per nulla predestinato alla gloria sportiva. Gli viene diagnosticata, quando ha solo pochi mesi di vita, una displasia, praticamente una lussazione congenita delle anche. È quindi costretto a portare un tutore durante i primi anni di vita, per assicurare un normale sviluppo fisico. Oltre alle anche a undici anni viene individuato un problema alla schiena, per la precisione alla colonna vertebrale. La famiglia pensa bene di iscrivere Dražen a un corso di nuoto, per supportare il corretto sviluppo del fisico del giovane. Arriva poi un cardiologo, che riscontra qualcosa che non va al cuore di Dražen: sembra improbabile che in queste condizioni il ragazzo possa fare sport ad alto livello.

Un giovanissimo Dražen in maglia Sibenka

Poco male, papà Jole e mamma Biserka non vogliono figli campioni ad ogni costo. Iscrivono Dražen e Aco a un corso di musica. I due non provano particolare interesse per l’arte, Aco abbandona tutto ciò che non sia pallacanestro (tranne la scuola dell’obbligo), Dražen invece è più versatile in gioventù: prova diverse discipline, prima di focalizzarsi su una sola. 

Da Aco però, Dražen ha assorbito la passione per il basket. Il maggiore dei fratelli Petrović entra prima nelle giovanili della squadra locale, il KK Šibenka. Nonostante sia giovane, a livello locale è già una stella. Si trasferisce poi alla principale squadra croata, il Cibona Zagabria. Dražen, previo ok del cardiologo, che riscontra come il problema sia risolto, chiede di partecipare alle selezioni per entrare nelle giovanili del Šibenka.

Le selezioni, fatte di lezioni teoriche e partitelle a ciclo continuo, sarebbero riservate ai ragazzi dai tredici ai diciassette anni, ma vengono fatte eccezioni per ragazzi particolarmente interessanti. Dražen, portandosi dietro la nomea del fratello di Aco, supera senza difficoltà le selezioni: tritura e asfalta ragazzi più grandi di lui, che a volte reagiscono brutalmente, ma il ragazzo non arretra. Anzi.

A dispetto del carattere chiuso, ad ogni azione il suo gioco diventa più irridente e provocatorio. L’allenatore delle giovanili del Šibenka non ha dubbi: Dražen vestirà la maglia di suo fratello, appena lasciata: un tempismo perfetto!

La fantasia, arma fondamentale di Dražen, detto il Mozart dei Canestri. Per la sua forza, il suo killer instinct e la sua vena provocatoria era anche detto il Diavolo di Sebenico.

Questo è un punto di svolta per Dražen: ora che ha a disposizione delle strutture adatte, il giovane di casa Petrović inizia ad allenarsi. Per davvero. In maniera ossessiva. Supportato da una grande autostima. Dice di non aver avuto modelli, giusto qualche tiepida ammirazione, e ha grande spirto critico, raro nei fuoriclasse. È perennemente insoddisfatto del livello raggiunto. 

Arriva ad allenarsi tra le 5 e le 7 ore ogni giorno. Chiede persino ospitalità alla squadra femminile occasionalmente. Si allena nel tiro prima della scuola, per migliorare la sua meccanica: in gioventù infatti lo chiamano Kamenko, pietraio, dato che il suo tiro è teso, con poca parabola, pesante.

Lavora su tutti i fondamentali. È fantasioso, imprevedibile: ha un arsenale offensivo praticamente illimitato. Può attaccare il canestro o tirare da lontano, può smarcare un giocatore con passaggi imprevedibili. Questo è il frutto di quei durissimi allenamenti.

Dražen in maglia Nets: anche la NBA ha dovuto riconoscere il suo talento

L’impegno, il sudore gettato sul parquet, portano risultati. Esordisce giovanissimo nel Šibenka. Non può vincere però, visto che il resto della squadra non è minimamente vicino al suo livello. Segue allora le orme del fratello andando al Cibona, poi si trasferirà al Real Madrid. Vince tutto ciò che può vincere in Europa. Anche con la nazionale Jugoslava vince tutto: un mondiale, un europeo, oltre a dei podi. miglior giocatore del mondiale e dell’europeo. Cosa può fare quindi a questo punto, un giocatore eternamente insoddisfatto che vuole costantemente migliorare? C’è solo un ultimo salto che può compiere. La NBA, National Basketball Association: il campionato professionistico americano. Dražen vi approda dopo un anno in Spagna, a Madrid, nel 1989. Era stato selezionato alla posizione numero 60 nel 1986, dai Portland Trail Blazers, la squadra cui si aggrega. È un’epoca positiva per la franchigia dell’Oregon, che arriva in Finale nel 1990 e in finale di conference l’anno successivo. Dražen ha scelto bene quindi, visti i risultati. Peccato che coach Adelman non vede proprio Dražen, probabilmente perchè i compagni lo ritengono troppo egoista. Così non i Trail Blazer non si oppongono quando Dražen si trasferisce sulla East coast, in New Jersey, per vestire la canotta dei Nets. E qui Dražen riesce a mostrare anche negli Stati Uniti: realizza 20,6 punti di media a partita e tira col 51% dal campo. Vernon Maxwell, guardia degli Houston Rocket, afferma che:

“deve ancora nascere un europeo bianco che mi faccia il culo”.

La risposta di Dražen è una prestazione da 44 punti. A fine stagione il croato è nominato nel terzo quintetto NBA. 

Una lezione di volontà. Grazie a ciò è riuscito a sopportare la situazione creatasi a Portland, e a farsi riconoscere come un giocatore tra i più interessanti della NBA, al punto da ricevere un’offerta di rinnovo dai Nets di ben 3,3 milioni a stagione.

Vlade Divac e Dražen: cresciuti assieme nelle nazionali giovanili jugoslave, si separarono dopo la finale mondiale del 1990 e non si rivolsero più la parola fino alla morte di Dražen

Oltre a questo c’è un’altra dote che supporta Dražen nella sua ascesa: la conoscenza perfetta degli avversari, delle loro cifre, delle loro abitudini in campo. Oltre alla stessa faccia tosta messa in mostra alle selezioni per il Šibenka.

C’è un altro episodio fondamentale nella vita del giocatore croato. Finale mondiale di Argentina, 1990. La Jugoslavia si è appena laureata Campione del Mondo. I ragazzi sono sul campo a festeggiare: è stato un mondiale duro, viste le tensioni in patria. Prima del Mondiale se ne sono andati gli sloveni, visto che la Slovenia ha dichiarato l’indipendenza dalla Jugoslavia. Durante i festeggiamenti sul campo, a Buenos Aires, un ragazzo con la bandiera croata si avvicina alla nazionale jugoslava: il centro, Vlade Divac, amico fraterno di Dražen, strappa la bandiera e la getta a terra. 

Per comprendere questo litigio tra due giocatori di basket, perché apparentemente di questo si tratta, bisogna fare un breve viaggio nella storia della Jugoslavia.

I Balcani, è risaputo, sono un mosaico fatto di tre religioni (Cattolicesimo, Cristianesimo Ortodosso e Islam), varie lingue (sloveno, croato, serbo, albanese) e vari popoli (sloveni, croati, bosniaci, serbi, montenegrini, albanesi e tutta una serie di minoranze, non ultima quella italiana in Dalmazia). Per secoli questo mosaico è stato dominato dalle varie potenze europee, soprattutto da austro-ungarici e ottomani, anche se sulla scena balcanica si sono succeduti anche altri attori, ad esempio la Serenissima Repubblica di Venezia in Dalmazia.

All’inizio del ‘900, nei Balcani, si assiste alla nascita di un sentimento irredentista, rispetto al dominio austro-ungarico, fomentato dalla Serbia: il progetto sarebbe uno stato balcanico, a guida serba, che unisca i popoli slavi.

Questo stato vedrà la luce dopo la Prima Guerra Mondiale. Subirà varie trasformazioni, venendo poi travolto e smembrato nella Seconda Guerra Mondiale.

Il secondo conflitto mondiale vedrà emergere la personalità di Josip Broz, detto Tito. È il comandante della resistenza jugoslava, di matrice comunista. Unificherà i popoli slavi, dando vita a una federazione, la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.

Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito recita la filastrocca voluta dalla propaganda jugoslava. Ma nel 1980 Tito muore. E gradualmente i nazionalismi riesplodono.

La prima a dichiarare l’indipendenza è la Slovenia, nel 1990.

I croati spingono anche loro per avere l’indipendenza e uno stato loro. Non hanno mai amato i serbi che monopolizzano la Jugoslavia. 

La Croazia dichiarerà l’indipendenza nel 1991. Si scatenerà immediatamente una guerra civile, sanguinosissima, che si estenderà anche alla Bosnia-Erzegovina.

La guerra si chiuderà solo nel 1995 con gli accordi di pace firmati negli Stati Uniti, a Dayton.

È una guerra che viene combattuta anche nello sport. Anche Zvonimir Boban, insieme a Dražen simbolo dello sport croato di fine anni ’80 e inizio anni ’90, avrà il suo “momento di gloria”. 

È in questo quadro dunque che si inserisce l’episodio della bandiera, nella finale del Mondiale ’90.

Dražen non perdonerà mai Vlade. La loro storia è narrata in uno splendido documentario di ESPN, Once Brothers

Questa storia si intreccia con quanto accade nell’estate del 1993. Dražen è senza contratto, libero di accasarsi a piacimento. Ha il suo futuro cestistico nelle sue mani. Vuole però concentrarsi sulla nazionale croata, che si appresta a giocare gli Europei. Ha affrontato delle amichevoli in Germania, vuole passare qualche giorno a casa, in famiglia. Decide di viaggiare in macchina, accompagnato dalla fidanzata, cui cede il volante per riposare un po’. Si addormenta: non si risveglierà più. È il 7 giugno del 1993: sono passati 28 anni da quando uno dei più forti giocatori europei di sempre si è spento in un incidente d’auto.

Dirk Nowitzki e Luka Doncic: gli eredi di Dražen, che hanno proseguito nella strada tracciata dal croato.

Cosa resta di Dražen? Innanzitutto ha contribuito ad asciugare l’Atlantico, cestisticamente parlando. Ha dato credibilità ai giocatori europei, aprendo la strada al compagno di nazionale Toni Kukoc per esempio, tre titoli con i Bulls di Jordan e un titolo di miglior sesto uomo dell’anno. Oppure a Dirk Nowitzki, tedesco, primo europeo a vincere l’MVP della stagione regolare e delle finali.

Resta anche una lezione di applicazione, di lavoro ripetuto, ossessivo, che è l’unica via per raggiungere le vette nel proprio campo. Una forza di volontà ferrea, unita a una grande intelligenza sono le armi che il croato ha messo in campo per raggiungere la vetta.

Un’eredità pesante insomma. Che qualcuno deve portare avanti. E quel qualcuno già c’è. Se chiedete a me, vi dico che mi piace pensare che gli Dei del basket si siano resi conto di quanto ingiusto fosse togliere al mondo un campione del genere a soli 29 anni. Così abbiano concesso a una parte dello spirito di Dražen di tornare, di scegliere qualcuno a cui donare quel talento. Quel qualcuno è un ragazzo nato non lontano dalla Croazia, e ha la stessa faccia tosta di Dražen. È passato da Madrid, dove era titolare a 16 anni e a 18 era già il migliore di tutta Europa. È già in NBA, dove si sta affermando come uno dei più forti giocatori. Con le stesse armi di Dražen: imprevedibilità, raggio di tiro praticamente illimitato e una tecnica sopraffina. Il suo nome è Luka Doncic.

Fidatevi, sarà lui a portare avanti la leggenda di Dražen e del basket balcanico.

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